Published On: Giugno 21, 2016Categories: Diritto Societario, News

Trasferimento delle Partecipazioni di S.r.L.

La Commissione Società del Consiglio notarile di Milano ha pubblicato tre nuove massima in materia di trasferimento delle partecipazioni di S.r.l., che di seguito si riportano espressamente con anche le relative motivazioni.

Massima n. 151 del 17 maggio 2016 – Recesso in presenza di una clausola di mero gradimento nelle s.r.l. (art. 2469, comma 2, c.c)

In presenza di una clausola statutaria che subordini il trasferimento delle partecipazioni sociali al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi, senza prevederne condizioni e limiti, è legittimo prevedere espressamente che ai soci spetti il diritto di recesso unicamente quando il gradimento venga richiesto e negato.

Il dato letterale dell’art. 2469, comma 2, c.c. sembra lasciar intendere che la mera previsione da parte dell’atto costitutivo della intrasferibilità delle partecipazioni o di un gradimento mero legittimi tutti i soci, in ogni momento, ad esercitare il diritto di recesso. Tuttavia una simile lettura, con riferimento alle clausole di gradimento mero, rischia di essere contraria alla ratio della norma, volta a evitare che il socio sia “prigioniero” della società.

Se può essere coerente con tale finalità il riconoscimento di un diritto di recesso ad nutum in capo a tutti i soci a fronte di una clausola che preveda l’intrasferibilità assoluta della partecipazione, altrettanto non può dirsi per il caso di clausola che preveda il rilascio di un gradimento mero da parte degli organi sociali, dei soci o di terzi. In tal caso, infatti, attribuire a tutti i soci, indiscriminatamente, la possibilità di recedere avrebbe un effetto opposto a quello tutelato dalla norma in esame: ciascun socio, maturata la decisione di uscire dalla compagine sociale, potrebbe arbitrariamente scegliere di recedere dalla società ottenendo la liquidazione della propria partecipazione, a carico degli altri soci, anche in assenza di soggetti intenzionati a comprare la sua partecipazione. In altre parole, per tutelare il diritto di un socio di non restare intrappolato nella società, si consentirebbe a questo stesso socio di porre a carico della società e/o degli altri soci l’onere della sua liquidazione anche in assenza di altri soggetti disposti ad acquistare la partecipazione.

È quindi certamente legittima una clausola statutaria che attribuisce all’art. 2469, comma 2, c.c., un significato coerente con la ratio cui è ispirato, riconoscendo espressamente il diritto di recesso ai soci solo nel caso in cui il gradimento “mero” sia negato, eventualmente richiedendo adeguata dimostrazione della disponibilità del terzo ad acquistare la partecipazione, poiché solo in tale circostanza si verifica il presupposto che la regola dettata dal legislatore intende sanare, consistente nel rischio di “prigionia” del socio. Una siffatta clausola, del resto, ove si aderisse alla tesi qui sostenuta, risulterebbe riproduttiva dello stesso precetto legale. Essa potrebbe comunque essere ritenuta opportuna, nella misura in cui rende esplicito l’effetto della norma, individuando esattamente i presupposti del diritto di recesso, anche in assenza di una esplicita presa di posizione in statuto.

Massima n. 152 del 17 maggio 2016 – Divieto temporaneo di trasferimento delle partecipazioni di s.r.l. (art. 2469, comma 2, c.c.)

È legittima la clausola statutaria che, in presenza di un divieto temporaneo di trasferimento di quote di s.r.l. per un periodo superiore ai due anni, escluda espressamente la facoltà di recesso per l’intero periodo di intrasferibilità, purché il termine apposto al divieto di trasferimento, tenuto conto dell’oggetto sociale e della durata della società, non sia tale da rendere il divieto assoluto e non temporaneo.

L’art. 2469, comma 2, c.c. prevede, tra le altre, l’ipotesi della clausola statutaria di intrasferibilità delle partecipazioni, stabilendo che, in presenza di una tale disposizione statutaria, il socio abbia diritto di recedere ai sensi dell’art. 2473 c.c. La medesima disposizione, peraltro, attenua la regola enunciata consentendo agli statuti di stabilire un termine, non superiore a due anni, prima del quale il recesso non può essere esercitato.

Una prima lettura della norma potrebbe essere orientata a riconoscere il diritto di recesso in qualunque caso di intrasferibilità delle partecipazioni, a prescindere dalla durata o, più in generale, dalla portata del divieto. Secondo tale lettura, in sostanza, lo statuto potrebbe impedire, senza il correttivo del recesso, la circolazione delle partecipazione solo per un tempo massimo di due anni; decorso il biennio, il socio soggetto ad una clausola di intrasferibilità (quale che ne sia la portata) potrebbe sempre recedere ai sensi dell’art. 2473 c.c.

Una tale lettura, tuttavia, non appare condivisibile.

Vi si oppongono anzitutto solidi argomenti di carattere letterale. La locuzione utilizzata dalla norma, infatti, si riferisce nel suo tenore letterale alla sola intrasferibilità assoluta, e cioè al caso di divieto, appunto, assoluto di trasferimento della partecipazione. Ciò si evince non solo dal significato piano delle parole utilizzate (la “intrasferibilità” delle partecipazioni è locuzione che di per sé evoca divieto di trasferimento senza eccezioni o limiti), ma anche dalla formulazione della fattispecie immediatamente successiva prevista dalla stessa norma. Descrivendo la clausola di gradimento idonea ad attribuire recesso, la norma infatti ha cura di precisare che si deve trattare di gradimento che non preveda “condizioni o limiti”, e così assicura che il gradimento che invece tali limiti o condizioni preveda non renda operante la causa di recesso. Una lettura coerente delle due fattispecie legittimanti il recesso previste dalla norma porta dunque a confermare la tesi secondo cui costituisce causa di recesso solo la clausola di intrasferibilità assoluta, la clausola, cioè che vieti la circolazione della partecipazione senza limiti e senza eccezioni.

Agli argomenti basati sulla lettera della norma, si aggiungono, in modo assai significativi gli argomenti di carattere sistematico e funzionale.

Si consideri anzitutto che, diversamente opinando, il profilo della trasferibilità delle partecipazioni sociali finirebbe per essere disciplinato in modo poco coerente, nel quadro dei diversi tipi delle società lucrative. Si parte infatti dalle società di persone, nelle quali il regime legale prevede l’intrasferibilità delle partecipazioni, salvo che consti il consenso degli altri soci (art. 2252 c.c.), ferma la possibilità per l’autonomia negoziale di attenuare il limite legale di trasferibilità, di per sé già meno rigido per quanto concerne le partecipazioni dei soci accomandanti nelle s.a.s. (art. 2322 c.c.). Si arriva poi alle società azionarie, per le quali, a fronte dell’opposta regola legale della libera trasferibilità delle azioni, viene espressamente concessa all’autonomia statutaria di impedire del tutto l’alienazione delle azioni, purché in via temporanea, entro il limite massimo di 5 anni (art. 2355-bis c.c.). In modo del tutto singolare, nel mezzo starebbe la s.r.l., per la quale, a fronte della medesima regola legale di libera trasferibilità, sarebbe concesso un divieto di trasferimento solo per massimi 2 anni, oltre i quali una diversa volontà dei soci sarebbe colpita non già dalla nullità della clausola, bensì dalla facoltà di recesso ad nutum a favore di tutti i soci destinatari del divieto statutario.

Il maggior spazio riservato dal legislatore all’autonomia statutaria nel modello organizzativo delle s.r.l., al contrario, è da ritenere strumentale alla possibilità di introdurre elementi personalistici nella struttura statutaria delle s.r.l., rendendole dunque più vicine ai tipi delle società di persone, anche sotto questo punto di vista. La possibilità di introdurre divieti anche più lunghi di 2 anni (e anche più lunghi di 5 anni, salva la necessità di valutare caso per caso la durata della società e il suo oggetto sociale), senza incorrere nella assai gravosa conseguenza del recesso ad nutum, è pertanto funzionale a realizzare questa maggior fungibilità del modello, nei casi in cui l’intuitus personae richieda il mantenimento della compagine sociale iniziale, almeno per un determinato periodo di tempo.

Dalla tesi testé espressa deriva che un divieto non assoluto ma solo temporaneo di trasferimento delle partecipazioni sociali non costituisce causa di recesso, poiché il divieto temporaneo – in quanto non assoluto – non è fattispecie rientrante nel perimetro applicativo dell’art. 2469, secondo comma, c.c.. Ad analoga conclusione si potrà giungere per altre clausole di intrasferibilità non assoluta, come potrebbero essere le clausole che facessero divieto di trasferire solo parte della partecipazione posseduta imponendo il necessario trasferimento dell’intera partecipazione o quelle che prevedessero il trasferimento solo a favore di determinate categorie di soggetti, o quelle che ad esempio vietassero i trasferimenti con corrispettivi diversi dal denaro, e così via. In tutte queste ipotesi, la disposizione statutaria che escludesse il recesso senza limiti di tempo o comunque per un periodo di tempo superiore a due anni sarebbe dunque legittima, perché avrebbe soltanto il significato di precisare in statuto la disciplina comunque operante ai sensi di legge.

Anche per le clausole di divieto non assoluto di trasferimento delle partecipazioni vale naturalmente la consueta sollecitazione a valutare la clausola statutaria nel complesso delle concrete previsioni statutarie. E ciò, nel caso di specie, per evitare che alla luce degli specifici assetti esistenti in una determinata società (si pensi alle disposizioni sull’oggetto sociale o sulla durata) una clausola di intrasferibilità formalmente relativa non possa o debba essere letta, in un’ottica più sostanzialistica, come clausola di intrasferibilità assoluta.

Massima n. 153 del 17 maggio 2016 – Riscattabilità delle quote della s.r.l. (artt. 2469 e 2473-bis c.c.)

Sono legittime le clausole statutarie che attribuiscono ai soci di società a responsabilità limitata o ad alcuni di essi il diritto di riscattare in tutto o in parte le partecipazioni di altri soci, al ricorrere di determinati presupposti o durante determinati periodi di tempo, ferma restando l’applicabilità della regola della equa valorizzazione delle partecipazioni sociali prevista nei casi di recesso legale (art. 2473, comma 3, c.c.).

Con riferimento alle maggioranze richieste per l’introduzione nello statuto sociale di una clausola di riscatto:

(a) qualora il potere di riscatto sia attribuito a tutti i soci e la riscattabilità sia prevista quale condizione in cui qualsiasi socio possa incorrere al verificarsi di particolari situazioni, l’introduzione viene deliberata con le maggioranze ordinarie previste per le modificazioni statutarie, fatto salvo il consenso individuale del socio o dei soci che al momento della modificazione statutaria dovessero trovarsi nella situazione prevista dalla clausola;

(b) qualora invece il potere di riscatto sia attribuito solo ad alcuni i soci o la riscattabilità sia prevista quale soggezione che grava solo su alcuni soci, la clausola di riscatto può essere inserita nello statuto sociale solo con deliberazione unanime, trattandosi di introduzione di diritti particolari dei soci ai sensi dell’art. 2468 c.c.

La prima parte della Massima afferma, in linea con la più diffusa opinione dottrinale, l’ammissibilità della previsione statutaria del diritto di riscatto nelle società a responsabilità limitata.

Con riferimento ai presupposti della riscattabilità, si afferma il principio secondo cui il diritto di riscatto può essere previsto “al ricorrere di determinati presupposti o durante determinati periodi di tempo”. La scelta è dunque quella di consentire, sul punto, ampia flessibilità statutaria, riconoscendo come legittime anche le clausole che non comprendano, come presupposto per il proprio operare, la sussistenza di una “giusta causa” di riscatto.

Così opinando, il perimetro applicativo del riscatto convenzionale risulta più ampio rispetto a quello contemplato dalla fattispecie, che pur presenta qualche elemento di somiglianza con quella qui esaminata, dell’esclusione del socio (art. 2473-bis c.c.). La scelta si giustifica alla luce della diversa configurazione dei due istituti, specie sotto il profilo funzionale. L’esclusione, infatti, costituisce la reazione della società a un “inadempimento” del socio o a una situazione che rende comunque incompatibile la continuazione della sua partecipazione; di qui il necessario scrutinio sulla sussistenza di una giusta causa di esclusione. Il riscatto, invece, implica il diritto di uno o più soci, e non dunque della società di per sé considerata, ad ottenere il trasferimento a proprio favore di una determinata partecipazione; il riscatto, come tale, dà luogo dunque ad una vicenda di circolazione delle partecipazioni sociali che può rispondere a vari interessi, ma che non postula necessariamente esigenze sanzionatorie della società nei confronti del socio. Il riscatto, insomma, assume connotazioni funzionali vicine a quelle tipiche, ad esempio, delle clausole di prelazione o ancor di più delle clausole di covendita; di qui, la tendenziale irrilevanza del requisito della giusta causa.

La Massima, inoltre, chiarisce che le clausole statutarie di riscatto devono rispettare il principio della equa valorizzazione delle partecipazioni sociali prevista nei casi di recesso legale. Sul punto, è sufficiente richiamare le considerazioni già sottese alle Massime n. 85 e 86 (relative alla prelazione impropria), 88 (relativa alla covendita) e 99 (relativa alle azioni riscattabili).

Ancora, la Massima chiarisce che il diritto di riscatto può assumere, nella società a responsabilità limitata, una duplice configurazione: (i) quella di norma generale relativa al funzionamento della società, che conferisce a ciascun socio il diritto di riscatto delle altrui partecipazioni e prevede la riscattabilità quale condizione in cui qualsiasi socio possa incorrere al verificarsi di particolari situazioni, ovvero (ii) quella di diritto particolare ai sensi dell’art. 2468 c.c., che conferisce solo ad alcuni soci il diritto di riscattare le altrui partecipazioni e/o prevede la soggezione all’altrui diritto di riscatto solo per alcuni soci (in quest’ultima ipotesi, sulla scia della interpretazione estensiva, più volte adottata dalla Commissione, della nozione di diritti attribuibili ai soci nel senso più generale idoneo ad includere qualsiasi situazione giuridica soggettiva, anche di soggezione, agli stessi riferibile).

Infine, vengono esaminate le modalità di introduzione nello statuto sociale delle clausole di riscatto, distinguendo le due ipotesi di cui sopra sub (i) e (ii). Nella prima ipotesi – vale a dire l’ipotesi in cui il potere di riscatto sia attribuito a tutti i soci e la riscattabilità sia prevista quale condizione in cui qualsiasi socio possa incorrere al verificarsi di particolari situazioni – l’introduzione, come regola generale, può essere deliberata con le maggioranze ordinarie previste per le modificazioni statutarie, non configurandosi l’esigenza di proteggere alcun diritto soggettivo individuale. Se però al momento dell’inserimento della clausola uno o più soci si trovino nelle situazioni previste dalla clausola medesima, la Massima – confermando l’adesione all’indirizzo più prudente, già adottato in tema di azioni riscattabili – richiede il loro consenso individuale.

Nella seconda ipotesi – quella in cui il diritto di riscatto sia attribuito solo ad alcuni i soci e/o la riscattabilità sia prevista quale soggezione che grava solo su alcuni soci – l’introduzione della clausola soggiace invece alla disciplina di cui all’art. 2468 c.c. e pertanto potrà avvenire solo con deliberazione unanime, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo secondo quanto consentito dall’art. 2468, quarto comma, c.c., ma sempre ferma la necessità del consenso individuale del socio o dei soci le cui partecipazioni siano assoggettate all’altrui diritto di riscatto.

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